Rileggendo il mirabile poema di Ovidio Nasone (43 a.C.- 17 d.C.) ci si imbatte in un vero e proprio manifesto animalista “ante litteram” che il poeta attribuisce a Pitagora (nato a Samo nella prima metà del 6° sec.a.C,, trasferitosi poi a Crotone dove fondò la sua famosa scuola) della cui dottrina si sarebbe nutrito il secondo re di Roma,Numa Pompilio, che si era recato nella città calabra.
(testo tratto da Libro XV delle “Metamorfosi” di Ovidio pubblicato dalla B.U.R. – Classici Greci e Latini – 15a ediz. – traduzione di Giovanna Faranda Villa)
E’ un testo che colpisce per la sua straordinaria chiarezza ed efficacia sì che lo proponiamo ai nostri lettori nella traduzione italiana (v. “Le Metamorfosi” nell’ed. B.U.R. “Classici latini e greci ” ed.2013, trad. di Giovanna Faranda Villa)e senza alcun commento ché ci sembrerebbe del tutto superfluo.
/«Smettetela, uomini, di profanare i vostri corpi con ci- “bi empi! Ci sono le messi, ci sono alberi stracarichi di frutti, ci sono turgidi grappoli d’uva sulle viti! Ci sono erbe dolci e tenere, altre che si possono addolcire e ammorbidire con la cottura. Avete a disposizione il latte e il miele profumato di timo. La terra nella sua generosità vi propone in abbondanza blandi cibi e vi offre banchetti senza stragi e sangue. Sono le bestie a soddisfare la loro fame con la carne, e nemmeno tutte! I cavalli, le pecore, i bovini vivono d’erba. Invece quelle che hanno una natura in domabile e feroce: le tigri d’Armenia, i rabbiosi leoni, i lupi e gli orsi, pretendono cibo sanguinolento. Che enorme delitto è ingurgitare viscere altrui nelle proprie, far in grassare il proprio corpo ingordo a spese di altri corpi, e vivere, noi animali, della morte di altri animali! Ti par possibile che fra tanto ben di dio che produce la terra, ottima tra le madri, a te non piaccia masticare altro coi tuoi denti crudeli che carne ferita, riportando in voga le abitidini dei Ciclopi? E non riuscirai a placare le brame del tuo ventre vorace e male abituato se non uccidendo un altro? Eppure quell’antica età, cui abbiamo dato il nome di “aurea”,9 fu felice perché gli uomini vìvevano dei frutti degli alberi e delie erbe prodotte dalla terra, e le bocche non erano contaminate dal sangue! Allora gli uccelli potevano volare tranquilli nell’aria e le lepri errare nei campi senza paura e I pesci non rischiavano, per la loro ingenuità, di finire a penzolare da un amo. Non c’erano insidie, non c’era timore di frodi, la pace regnava dappertutto. ^
Poi ci fu uno, chiunque egli sia stato, in cui nacque un sentimento perverso di invidia per il cibo di cui si pascono gli dei e si mise a ingoiare avidamente pietanze di carne, aprendo così la via allo scempio. Può darsi che in un primo tempo il ferro si sia macchiato del caldo sangue delle bestie feroci: e di ciò ci si doveva accontentare. Ammetto che decretare la morte di chi cerca la nostra non è peccato. Ma se era lecito uccidere le belve, non altrettanto lo era mangiarle. Invece da lì la strage si estese. Si pensa che la prima vittima sia stato il porco, che meritò di morire perché, scavando col suo grugno, dissotterrava le sementi e frustrava le speranze di raccolto. Toccò poi al capro: si dice che per aver mangiato foglie di vite fu sacrificato sull’altare di Bacco, che di ciò pretendeva vendetta. Fu dunque la loro colpa ad attirare su questi due animali la punizione. Ma voi pecore, gregge pacifico, nato per aiutare l’uomo, che portate nelle vostre poppe colme un latte che è un nettare, che ci offrite la vostra lana per farne morbide vesti e siete più utili vive che morte, che colpa avete mai avuto? E che colpa ha il bue, animale onesto e ingenuo, innocuo e semplice, nato per sopportare la fatica? È un ingrato, un indegno del dono delle messi, colui che può macellare la bestia che per lui lavora i campi, subito dopo averle tolto di dosso il peso dell’aratro ricurvo! Colui che può abbassare la scure su quel collo logorato dalla fatica, di cui si è servito tante volte per lavorare il duro terreno dei campi e per ottenere tanti raccolti! E non basta a gente del genere commettere un tale delitto, ma ne ascrivono la responsabilità agli dei, ritenendo che la suprema divinità goda della strage dei laboriosi giovenchi! Una vittima senza macchia, dal bellissimo aspetto (questo le è stato fatale!), ornata d’oro e cinta di bende, viene collocata davanti all’altare, ode preghiere di cui non capisce il senso, vede che le pongono tra le corna quelle messi che sono cresciute grazie alla sua fatica e infine viene colpita e arrossa di sangue il coltello che forse aveva intravisto poco prima, riflesso nell’acqua limpida. Ed ecco che i sacerdoti si affrettano a scrutare dentro le viscere strappate al suo petto ancor caldo e pensano di individuare in esse i disegni degli dei. E di queste osate cibarvi, uomini? Tanto grande è la vostra fame di cibi proibiti? Non fatelo, vi prego, ma ascoltate i miei avvertimenti! E quando vi mettete sotto i denti le membra dei buoi uccisi, rendetevi ben conto che masticate la carne dei vostri contadini!
^Che tremende abitudini contrae e come si prepara a versàire empiamente sangue. Umano mentre taglIa con un coltello Ia gola di un vitellino senza lasciarsi turbare dai muggiti che giungono alle sue orecchie! Colui che può_sgozzare un capretto che emette lamenti simili ai vagiti di un bambino…..^
Quanto manca a gente del genere per compiere un vero e proprio delitto? Se si comincia così, dove si andrà a finire? Lasciate che il bue ari e debba la sua morte alla vecchiaia, che la pecora ci procuri il mezzo di difenderci contro i rigori di Borea, che la capra ci offra le sue poppe da mungere! Eliminate le reti, le trappole, i cappi, tutte le insidie! Non preparate tranelli agii uccelli con bastoni spalmati di vischio, né ai cervi con spauracchi coperti di penne e non nascondete gli ami adunchi sotto esche in-gannatrici! Uccidete le bestie che fanno del male, ma limitatevi a ucciderle! Le vostre bocche none se ne cibino e si nutrano solo di alimenti incruenti!». Così Pitagora.
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