E’ uscito in questi giorni un nuovo libro degli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi dal titolo “Il liberismo è di sinistra”.
Il titolo è chiaramente provocatorio.
Per chi ha letto e studiato sui libri di Milton Friedman, di Friedrich von Hayek, di Ludwig Von Mises, di Luigi Einaudi, di Sergio Ricossa, il titolo sopra citato è chiaramente una bestemmia.
Concorrenza , mercato, privatizzazioni e liberalizzazioni, riforme e merito non sono mai state bandiere della sinistra, sia europea che italiana.
In realtà il libro è una critica e aperta denuncia dei tanti miti o tabù tipici della sinistra italiana come “l’alleanza dei produttori”, “i conflitti di classe”, “la difesa degli interessi di quello zoccolo duro di lavoratori anziani illicenziabili e di impiegati pubblici superprotetti dall’attuale legislazione”, “la retorica del salvataggio di aziende decotte”, “welfare, disoccupazione e precarietà”, ecc.; in sostanza è un libro-provocazione per la sinistra, un incentivo per una seria riflessione e profondo ripensamento delle tesi tradizionali della sinistra.
Anche oggi infatti, nonostante il fallimento storico del socialismo reale, la scuola di pensiero della sinistra socialdemocratica, cosiddetta riformista, pur riconoscendo e apprezzando la libertà e l’efficienza del mercato, di fronte ai grandi problemi di tutti i giorni, alla fine tende a privilegiare il collettivo sull’individuale, il “politico” sul “privato”, le prescrizioni e i vincoli dirigistici alla flessibilità e alla responsabilità.
Un motto invece per i riformisti liberali e liberisti è sempre stato il seguente: uguali nelle opportunità; diversi nelle aspirazioni; liberi nelle scelte.
Una politica liberale e liberista deve saper coniugare , sì, libertà e solidarietà per le fascie più deboli, ma anche e soprattutto la volontà e capacità di combattere e smantellare le incrostazioni burocratiche e corporative della nostra società, di eliminare i privilegi di tante categorie protette, in modo da introdurre sempre più i concetti di “opportunità”, “flessibilità”, “responsabilità”, “competizione”, “libertà di scelta”.
Basta ricordare i titoli di libri famosi dei grandi maestri del liberalismo internazionale come ad esempio, “Liberi di scegliere”, “Capitalismo e Libertà”, “Per il libero mercato”, “La via verso la schiavitù”, “ La scuola austriaca contro Keynes e Cambridge”, “Conoscenza, competizione e libertà”, “Il fallimento dello Stato interventista”, “Le prediche inutili”, “Somiglianze e dissomiglianze tra liberalismo e socialismo”, per capire che il liberismo non può essere di sinistra.
Certo, da un punto di vista strettamente liberale, il ministro Bersani è molto meglio (come omogeneità politica) di Alemanno e Storace (molto simili a Bertinotti), come qualificati esponenti del centrosinistra italiano (ad es. l’economista Nicola Rossi, Franco Debenedetti, Pietro Ichino, Michele Salvati) sono molto meglio di numerosi esponenti di Alleanza Nazionale o dell’UDC (“tassa e spendi”).
Il governo Berlusconi, partito con un programma elettorale riformista e liberale, aveva acceso grandi speranze e creato molte aspettattive, ha poi perso tempo, smalto e incisività, perché in molte occasioni si è impantanato in continue e deleterie mediazioni di stampo democristiano, annacquando sempre più l’originaria volontà riformatrice.
Infatti tutte le volte che Berlusconi non è riuscito ad esprimere le sue doti di leadership carismatica ed imporsi ai suoi alleati più o meno riottosi ed è stato ingabbiato in defatiganti mediazioni con le componenti più conservatrici della maggioranza, i risultati sono stati deludenti ed importanti interventi in campo economico e finanziario sono stati bloccati o diluiti nel tempo.