In questi giorni si parla delle missioni cinesi in Italia, invitate dal governo italiano per trattare l’acquisto di titoli di stato ed offrire la partecipazione in aziende strategiche nazionali.
I principali investitori cinesi: la CIG – China Investment Corporation ( il cosiddetto Fondo Sovrano cinese ) – la Safe – State Administration of Foreign Exchange – ed il pool delle prime tre banche cinesi trattano con la Cassa Depositi e Prestiti (CPD ) ed il Fondo Strategico Italiano ( FSI).
Ma il portafoglio cinese è unico e senza l’approvazione del politburo del Partito Comunista Cinese – PCC – gli investimenti all’estero non sono possibili.
I principali obiettivi cinesi in Italia sono i tre settori strategici dell’energia, delle infrastrutture e del credito.
Per il settore dell’energia sono coinvolte l’ Enel, l’ Eni e Aziende operanti nelle energie rinnovabili; per quello delle infrastrutture, i porti di Taranto, Gioia Tauro, Napoli, Trieste, Augusta e Pozzuoli, il ponte sullo Stretto di Messina, la piattaforma logistica del Nord Adriatico, aeroporti, fra cui quello di Malpensa, la gestione delle linee ferroviarie ad alta velocità e delle autostrade che collegano l’Italia all’Europa a Nord e ad Est; per il settore del credito, le due più importanti banche nazionali operanti all’estero: l’Unicredit e la Banca Intesa.
La Cina avrebbe già acquistato il 4% del debito pubblico italiano e potrebbe incrementare detta percentuale, in cambio di contropartite economiche (v. partecipazioni azionarie ) e politiche.
Ovviamente le trattative con la Cina sono condizionate dalla pregiudiziale politica.
Nel mondo i rapporti economici e commerciali sono regolati dalla Organizzazione Mondiale del Commercio – OMC in inglese WTO-. La Repubblica Popolare Cinese vi è stata accolta l’ 11 dic. 2001, dopo 15 anni di attesa, ma avrà pieno riconoscimento nel 2015.
Il 14 settembre c.m. il Capo del Governo cinese ha chiesto di anticipare detto riconoscimento quale “economia di mercato”. Ma esso si acquisisce non solo se esiste libertà di impresa, ma se è presente un diritto ed una giurisdizione, a garanzia di ciascuna parte e della collettività.
Attualmente queste condizioni non sono verificate. Nel frattempo, sono possibili accordi commerciali fra Enti che applicano diritti e norme incompatibili fra loro?
Certamente no. E se venissero firmati, non sarebbero validi sul piano internazionale.
E’ evidente la disparità giuridica e la sproporzione di dimensione fra imprese italiane che operano liberamente sul mercato ed aziende cinesi che agiscono nell’ambito e per conto del potere centralizzato cinese. Disparità inaccettabile se si pensa ad esempio che le nostre imprese possono fallire, mentre quelle cinesi sono sempre protette dal potere politico.. Da una parte le aziende italiane devono sottostare alle regole del mercato, dall’altra quelle cinesi devono subire le imposizioni del politburo comunista. La dissimmetria è paralizzante.
Inoltre va considerato l’aspetto della Difesa. Nonostante tutte le garanzie richieste, se nel turbolento Mediterraneo, tuttora teatro di conflitti sanguinosi, entrassero navi militari cinesi – già hanno fatto la loro comparsa – e trovassero ricovero presso porti italiani finanziati e gestiti dalla Cina, cosa potrebbe fare l’Italia in qualità di membro della NATO? E se le navi fossero dotate di armamento missilistico?- nucleare?
Gli scenari sono inquietanti ed il nostro Paese si troverebbe in balia di eventi incontrollabili.
Riflettano i nostri governanti: la politica è anche l’arte della previsione.
Nell’URSS l’economia statale collassò anche per il rifiuto ideologico di accettare il libero mercato. La Repubblica Popolare Cinese, a seguito della catastrofica esperienza sovietica, si è convertita all’economia di mercato nei rapporti con l’ estero, perché ha scoperto e riconosciuto che detto strumento è impareggiabile per ridurre i costi e promuovere la crescita economica. Ma lo ha applicato soltanto parzialmente (ad esempio, ignorando i diritti dei lavoratori, il rispetto delle norme di qualità e sicurezza e la protezione dell’ ambiente), mantenendo integri i benefici ed i previlegi dell’economia dirigistica nel mercato interno.
Al punto che, come rivela la rivista americana Forbes, oltre il 90% delle persone più ricche in Cina sono membri autorevoli del Partito Comunista Cinese.
Si è formato un intreccio non trasparente fra la nomenklatura politica, le centrali del potere economico e finanziario, le aziende delegate ad operare all’estero e gli interlocutori politici ed economici dei Paesi soggetto dell’espansione cinese nel mondo.
Da cui deriva lo straordinario successo economico della Cina entro e fuori dai propri confini.
In Occidente l’interesse a fare affari con la Cina è inarrestabile, anche se apparentemente non del tutto giustificabile. In Italia si va a gara per intrecciare rapporti economici con società ed enti economici cinesi. Non importa se ciò si traduce in perdita di lavoro domestico o in trasferimento tecnologico senza adeguata compensazione. L’ attrazione è fortissima, perché si generano comunque alti profitti, non compatibili con una corretta economia di mercato, basata sulla vera concorrenza e sul rispetto dei diritti dei lavoratori.
Bisogna avere il coraggio di riconoscere che i rapporti economici con la Repubblica Popolare Cinese provocano distorsioni del mercato, le cui conseguenze non sono state ancora sufficientemente valutate dagli economisti occidentali.
Da quanto su esposto discende che:
– E’ difficile per gli Stati democratici trattare con la Repubblica Popolare Cinese a parità di condizioni.
– Data la peculiarità del regime politico-economico cinese, è difficilmente applicabile il principio della reciprocità, indispensabile per equilibrare i rapporti economici e non solo.
– La strategia di acquisizioni della Cina in Italia equivarrebbe ad una parziale cessione della nostra sovranità territoriale ed alla subordinazione della nostra economia alle condizioni poste dalla Cina, in quanto detentore di una cospicua percentuale del nostro debito pubblico. In proposito si rammentano le dure reazioni della Cina, quando il 6 agosto di quest’anno l’agenzia Standard&Poor’s ha declassato il rating degli Stati Uniti.
– Cedere i nostri beni primari ed in definitiva parte della nostra libertà per sostenere la nostra economia equivale ad una guerra perduta. Il rimedio sarebbe molto peggio del male.
– Anche le esigenze della Difesa e della sicurezza potrebbero essere compromesse dalla cessione di territori ed infrastrutture strategiche.
– I nostri governanti non si lascino sopraffare dalla emotività. Ci sono altre vie praticabili per superare le difficoltà del momento, senza compromettere la nostra sovranità e la nostra libertà: ridurre drasticamente il debito pubblico con la dismissione di beni pubblici, come è già stato autorevolmente proposto, soprattutto da Libero.
– Se non ci stanno, sono pregati di togliere il disturbo. Ma la cessione dei capisaldi della nostra economia, presupposto per lo sviluppo futuro, MAI.
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