Qualche mese fa è uscito un nuovo libro di Luca Ricolfi, sociologo dell’Università di Torino, “Illusioni italiche”, (ed. Mondadori), che descrive un quadro del nostro Paese con molti dati a disposizione senza dar retta ai luoghi comuni.
“Separare i fatti dalle opinioni è sempre più difficile nel mondo in cui viviamo. Gli stessi dati, con cui i media continuamente ci bombardano, lungi dal rappresentare un punto di riferimento oggettivo e condiviso , vengono enfatizzati o ridimensionati in funzione del messaggio che si vuole trasmettere. I vari soggetti politici, economici e sociali si fanno così portatori di una serie di illusioni o false credenze, tanto più diffuse quanto più infondate”.
Questa osservazione di Ricolfi mi è venuta in mente perché , nelle settimane scorse, tra amici, era nata una discussione sul problema della crisi economico-sociale ed in particolare sull’impoverimento della famiglia media italiana, cioè del ceto medio: chi pro, chi contro; chi più pessimista, chi più pragmatico e realista.
A questo punto mi permetto di sintetizzare alcune mie osservazioni in merito.
Spesso le stime ufficiali sull’impoverimento di larghe fasce della popolazione sono diverse, e in qualche caso di segno opposto rispetto ai luoghi comuni, cioè alle opinioni prevalenti della gente o dei mass media.
D’altra parte per poter valutare obiettivamente la situazione, bisogna capire quello che è successo in questi tre o quattro anni a livello mondiale : una vera e grande distruzione di ricchezza.
Ovviamente questa crisi finanziaria mondiale ha colpito pesantemente anche il nostro Paese.
Quindi la crisi economica ha provocato un reale impoverimento della popolazione.
Questo è vero, ma non solo nel nostro Paese; questo è comune in tutti i Paesi occidentali avanzati, ad eccezione dei Paesi emergenti.
Basti vedere quello che sta succedendo negli Usa. Molte famiglie della “middle class” americana hanno smesso di comprare beni e servizi perché non hanno i soldi e che non sono più in grado di mandare i propri figli all’Università.
I dati ufficiali parlano di almeno 40 milioni di americani che vivono sotto la soglia della povertà, una cifra pari al 13% della popolazione. Inoltre, in diversi Stati, con le casse in profondo rosso, non sono più in grado di garantire i più elementari servizi sociali, come la scuola e la sanità.
Ma torniamo al nostro Paese.
Il ceto medio (in generale) è sicuramente in difficoltà, ma non da oggi.
Però anche qui bisogna fare una precisazione; normalmente consideriamo il ceto medio nel suo insieme; in realtà al proprio interno ci sono importanti differenze di gruppi sociali e professionali.
Come è noto tale ceto copre un’ ampia area che sta fra i poveri (il 12 per cento circa della nostra popolazione) e i benestanti (ossia famiglie con un reddito decisamente più elevato della media e prima dei ricchi veri e propri). Esso comprende quindi una parte dei lavoratori dell’ industria e dei servizi, il pubblico impiego, i lavoratori autonomi e numerose nuove figure professionali.
L’ultimo rapporto Censis (2009) parlava di difficoltà e sacrifici del ceto medio per l’occupazione e la preoccupazione per l’avvenire dei figli, non altrettanto sul piano del reddito, dei consumi, dello stile di vita.
Detto questo l’impoverimento diffuso è dovuto a molteplici cause: ridimensionamento di diversi settori produttivi non più in grado di sostenere la concorrenza dei Paesi emergenti; una diminuzione di servizi e delle prestazioni sociali dovuta alle obiettive difficoltà economico-finanziarie delle strutture del nostro Welfare; l’invecchiamento della popolazione e diminuzione della popolazione giovane, quindi meno gente che entra nel ciclo produttivo e più persone che ne escono (questo comporta l’aumento dei costi fissi); una serie di rigidità che ostacolano il rilancio dell’economia tale da permettere più sviluppo ed occupazione.
Anche la cultura del risparmio è cambiata; politiche commerciali aggressive che propongono continuamente sconti su prodotti con acquisti tramite società finanziarie, acquisti a rate; la comparsa nel budget di molte famiglie di nuove voci di spesa come quelle per il cellulare e le nuove tecnologie, inesistenti una ventina d’anni fa.
A mettere in difficoltà gli italiani sono anche gli imprevisti (la perdita del lavoro; una malattia grave; una separazione o divorzio) e una propensione a spendere oltre le proprie possibilità (ad es. acquisti a rate).
I soggetti più a rischio: le famiglie con figli adulti ancora in casa e quelle (in aumento) che li riaccolgono dopo un divorzio o una separazione oppure persone sole anziane, o famiglie monogenitore o coppie con almeno tre figli .
Occorre a mio avviso tenere in considerazione anche un fattore di carattere emotivo: cioè la percezione del proprio status e del proprio ruolo nella società. Come è stato più volte osservato: “sentirsi poveri pesa più di esserlo”.
Secondo i sociologi, una persona del ceto medio può percepire come caduta di status non solo la rinuncia ad un bene, ma anche la rinuncia a consumarlo nella sua varietà preferita o acquistarlo di qualità inferiore rispetto alle proprie abitudini oppure, ad esempio, passare dal negozio all’hard discount.
Dai rapporti Istat il numero delle famiglie italiane in condizioni di povertà è l’11,3% del totale , con il ceto medio in bilico. I più svantaggiati sono i giovani o famiglie giovani con figli. Chi sta peggio sono coloro che l’Istat indica con l’acronimo Neet, che significa not in education, employment or training (non lavorano, non studiano, non si formano). I Neet nel 2009 sono arrivati a oltre due milioni, il 21,2% dei 15-29 anni. Stanno a casa e a carico dei genitori.
Se consideriamo il rapporto tra il risparmio e il reddito disponibile medio delle famiglie otteniamo il saggio di risparmio, che si attesta intorno al 25-26% (però è in diminuzione) nonostante l’abbassamento del tasso di crescita dei redditi familiari. Le famiglie, percependo una diminuzione del loro potere di acquisto determinato dalla caduta dei redditi, hanno frenato i consumi e favorito l’accumulazione.
Ultima considerazione.
L’indice di concentrazione della ricchezza, così come l’indice di concentrazione del reddito è rimasto sostanzialmente stabile.
I ricchi sono rimasti ricchi anche con la crisi e i poveri sono rimasti poveri.
Non dimentichiamo che l’Italia è un Paese molto diseguale con una elevata concentrazione della ricchezza e del reddito, però la particolarità italiana della distribuzione della ricchezza risiede nel rapporto fra questa e il reddito disponibile.
Nel 2008 la ricchezza delle famiglie italiane risulta conplessivamente 7,6 volte superiore al reddito disponibile; in Usa è il 4,9, in Germania è 6,1 , in Francia è il 7,5.
Anche questo dato ovviamente va letto in relazione all’eccessiva concentrazione della ricchezza.
Come è noto dai testi di economia: Ricchezza netta è la somma delle attività reali (abitazioni, terreni, fabbricati non residenziali, oggetti di valore, ecc. circa 63% della ricchezza lorda) e le attività finanziarie (moneta, depositi, titoli, azioni, ecc.), al netto delle passività finanziarie (mutui, crediti al consumo, altri prestiti, riserve tecniche di assicurazione, ecc.).
Se esaminiamo esempi concreti di situazioni e comportamenti riscontriamo luci e ombre: da un lato, mense dei poveri, anziani in difficoltà, gente schiacciata dal mutuo, ecc.; dall’altro ristoranti pieni, viaggi in Italia e all’estero, acquisti di oggetti tecnologici sempre più sofisticati,ecc. (e questo non solo in Lombardia).
In conclusione, per le considerazioni fatte sopra, pur constatando senza alcun dubbio il divario crescente fra ricchi e poveri, fra alcune categorie privilegiate e i diseredati, se ci confrontiamo con gli altri Paesi, noi non siamo in situazioni diverse.
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